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È legittimo licenziare chi sta troppo su Facebook al lavoro

La Cassazione ha reso definitiva la cacciata di una donna nella provincia di Brescia. L'azienda come prova aveva portato la cronologia del computer. Dove c'erano 4.500 accessi al social network.


Se state leggendo questa notizia tramite Facebook, seduti comodamente alla vostra postazione di lavoro, correte un rischio bello grosso. Perché secondo la giustizia italiana licenziare un dipendente che sta troppo tempo sul social network è legittimo. La sentenza è arrivata sul caso di una donna della provincia di Brescia, impiegata come segretaria part time in uno studio medico. La Cassazioneha reso definitivo il licenziamento disciplinare, confermando la decisione della Corte d'appello che aveva ritenuto la gravità del comportamento «in contrasto con l'etica comune», tanto da incrinare il rapporto di fiducia.


"Gli accessi alla pagina Facebook personale richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente"


Il datore di lavoro aveva portato in tribunale come prova la cronologia del computer, a dimostrare 6 mila accessi a internet, di cui 4.500 a Facebook. I giudici l'hanno accettata, nonostante la difesa della donna avesse lamentato l'insufficienza a dimostrare che fosse stata proprio lei a connettersi col social di Mark Zuckerberg. Sul punto la Cassazione non è entrata nel merito, limitandosi a rilevare che la questione attiene al convincimento del giudice di merito, che ha motivato la decisione col fatto che «gli accessi alla pagina Facebook personale richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente».

I PRECEDENTI: LICENZIATI PER COLPA DI UN POST O DI UN LIKE

Non è la prima volta che in Italia Facebook risulta essere fatale per un lavoratore. Nel 2014 a Cagliari un dipendente fu cacciato per colpa di un like: mise "mi piace" a un post poco tenero nei confronti dell'azienda, che non gradì e lo sollevò dall'incarico. Stessa vicenda allo stabilimentoPerugina-Nestlé di Perugia, dove una donna inserita nella categoria protetta per una forma di invalidità dopo un incidente sul lavoro proprio alla Perugina scrisse un post in cui si opponeva al comportamento di un caporeparto che avrebbe rimproverato un altro lavoratore. Inizialmente licenziata, fu salvata dall'intervento del sindacato Fai-Cisl Umbria: alla fine l'azienda optò "solo" per un provvedimento disciplinare. A un lavoratore di Torino nel 2015 bastò dare della «milf» a una collega su Facebook per essere silurato.

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